ISBN: 9788822902825,
2019,
pp. 256,
167x240 mm,
Quodlibet
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Storico, paesaggista, designer e urbanista, Lucius Burckhardt è stato un pensatore tanto influente quanto eccentrico. Maestro di Jacques Herzog e Pierre de Meuron, teorico dell’ecologia, della partecipazione e dell’«intervento minimo», ha sviluppato quest’ultimo concetto, insieme a Bernard Lassus e Bazon Brock, in un seminario tenutosi, non a caso, a Gibellina, ovvero a fronte del primo «fecondo fallimento» della pianificazione di Stato nel dopoguerra; e si è spinto ad applicarlo anche all’arte dei giardini, anticipando così, almeno in parte, l’opera di Gilles Clément: «L’erba – ecco la teoria dell’intervento minimo – non deve essere trasformata in erbaccia degradando il giardinaggio a produzione di fiori».
Burckhardt è conosciuto come il padre fondatore della promenadologia, una teoria della percezione fondata sulla pratica del camminare, che permette di ricostruire la storia evolutiva dei vari frammenti di paesaggio, abitato, incolto, boschivo o dismesso, che incontriamo lungo il cammino. Lo studioso svizzero ha aperto in tal modo la strada a un approccio interdisciplinare agli ambienti creati dall’uomo, creando uno strumento di analisi in grado di confrontarsi con gli aspetti visibili e invisibili di ogni tipo di paesaggio (una categoria alla cui definizione ha dato un contributo assai rilevante). La sua ricerca non si è mai limitata alla mera dimensione estetica, ma si è sempre sforzata di considerare criticamente, anche e soprattutto, gli effetti a lungo termine della progettazione: «Riattivare sia il committente sia l’utilizzatore è una cosa possibile: non nel senso che ora vogliamo siano loro a produrre programmi deterministici e determinati, ma nel senso che anch’essi possano concorrere a definire soltanto quel che basta, perché chi prenderà parte al processo in futuro abbia anch’egli lo spazio per esprimere la propria opinione in merito». Il volume propone per la prima volta in Italia un’ampia raccolta degli scritti di Burckhardt, dalle prime riflessioni degli anni Sessanta sui temi della democrazia e della pianificazione, sul design e sull’«industria della porta accanto», fino al dibattito degli anni Novanta sul paesaggio, sulle periferie e sulla marginalità urbana. La sua è stata una voce critica, affine a quella di Ivan Illich (si veda, per esempio, il saggio La scuola: un luogo per sentirsi a casa, ma anche uno stimolo all’opposizione), caratterizzata dalla capacità di formulare le più ardue argomentazioni scientifiche con un’acuta semplicità espressiva che ha pochi termini di paragone. Anche per un irregolare come Burckhardt, infatti, restano valide le parole di Lewis Mumford: «Chi segue il metodo utopistico, deve guardare la vita considerandone contemporaneamente tutti i lati, e vederla come un tutto interrelato: non come una mescolanza casuale, ma come un organico insieme di parti suscettibile di migliore organizzazione».
Storico, paesaggista, designer e urbanista, Lucius Burckhardt è stato un pensatore tanto influente quanto eccentrico. Maestro di Jacques Herzog e Pierre de Meuron, teorico dell’ecologia, della partecipazione e dell’«intervento minimo», ha sviluppato quest’ultimo concetto, insieme a Bernard Lassus e Bazon Brock, in un seminario tenutosi, non a caso, a Gibellina, ovvero a fronte del primo «fecondo fallimento» della pianificazione di Stato nel dopoguerra; e si è spinto ad applicarlo anche all’arte dei giardini, anticipando così, almeno in parte, l’opera di Gilles Clément: «L’erba – ecco la teoria dell’intervento minimo – non deve essere trasformata in erbaccia degradando il giardinaggio a produzione di fiori».
Burckhardt è conosciuto come il padre fondatore della promenadologia, una teoria della percezione fondata sulla pratica del camminare, che permette di ricostruire la storia evolutiva dei vari frammenti di paesaggio, abitato, incolto, boschivo o dismesso, che incontriamo lungo il cammino. Lo studioso svizzero ha aperto in tal modo la strada a un approccio interdisciplinare agli ambienti creati dall’uomo, creando uno strumento di analisi in grado di confrontarsi con gli aspetti visibili e invisibili di ogni tipo di paesaggio (una categoria alla cui definizione ha dato un contributo assai rilevante). La sua ricerca non si è mai limitata alla mera dimensione estetica, ma si è sempre sforzata di considerare criticamente, anche e soprattutto, gli effetti a lungo termine della progettazione: «Riattivare sia il committente sia l’utilizzatore è una cosa possibile: non nel senso che ora vogliamo siano loro a produrre programmi deterministici e determinati, ma nel senso che anch’essi possano concorrere a definire soltanto quel che basta, perché chi prenderà parte al processo in futuro abbia anch’egli lo spazio per esprimere la propria opinione in merito». Il volume propone per la prima volta in Italia un’ampia raccolta degli scritti di Burckhardt, dalle prime riflessioni degli anni Sessanta sui temi della democrazia e della pianificazione, sul design e sull’«industria della porta accanto», fino al dibattito degli anni Novanta sul paesaggio, sulle periferie e sulla marginalità urbana. La sua è stata una voce critica, affine a quella di Ivan Illich (si veda, per esempio, il saggio La scuola: un luogo per sentirsi a casa, ma anche uno stimolo all’opposizione), caratterizzata dalla capacità di formulare le più ardue argomentazioni scientifiche con un’acuta semplicità espressiva che ha pochi termini di paragone. Anche per un irregolare come Burckhardt, infatti, restano valide le parole di Lewis Mumford: «Chi segue il metodo utopistico, deve guardare la vita considerandone contemporaneamente tutti i lati, e vederla come un tutto interrelato: non come una mescolanza casuale, ma come un organico insieme di parti suscettibile di migliore organizzazione».
ISBN: 9788822902825,
2019,
pp. 256,
167x240 mm,
Quodlibet